lunedì 31 ottobre 2011

La Fabbrica della Quantità.



di Mario Polidori

Negli anni '70, quelli della mia infanzia, ma soprattutto quelli prima della rivoluzione della comunicazione, tra tv e computer, tutti noi credevamo nel valore di un talento.
Erano gli anni in cui gli sconvolgimenti sociali della fine dei '60 ci avevano regalato sogni e speranze, vedevamo mille mondi e mille futuri possibili, sembrava che nulla ci avrebbe potuto impedire di realizzarci in qualsiasi campo ed il fondamento su cui basare l'ottenimento del risultato era la qualità. Potevamo pensare di diventare ricchi è famosi facendo i cantanti, gli attori, gli scrittori, ma anche l'avvocato o il medico, dentro di noi c'era la certezza che alla qualità della nostra preparazione sarebbe corrisposta, per quanto difficile fosse il cammino, la vittoria. Era il vecchio detto de "il lavoro paga sempre". Ad aumentare le nostre aspettative arrivò la tecnologia ed una quantità industriale di televisione, che invece, però, di regalarci più chances, ci hanno sbarrato la strada, in un batter d'occhio siamo passati dalla società dell'Essere a quella dell'Apparire ed i nostri sogni sono fatalmente andati in frantumi. La produzione del talento è passata, gioco forza, alla quantità senza talento, dacché i musicisti, per esempio, erano pochi e di livello, riempire l'offerta tra radio e tv ha dato l'opportunità di entrare nel business a chiunque portando la qualità ai minimi storici e tagliando definitivamente fuori chi talento ne aveva e cercava di prepararsi al meglio. Di colpo queste persone sono uscite dal mercato, di loro, del loro modo di cercare la qualità, nessuno sapeva cosa farsene e adesso girano come zombie in un mondo che non comprendono, rifiutano e ne sono rifiutati. Qualcuno è riuscito a fare dei suoi principi un vezzo intellettuale ed a farsi notare, ma la maggior parte vive nell'oblio, messo da parte da regole cambiate in corsa alle quali, moralmente, non riesce ad adeguarsi. Non si tratta, purtroppo, di qualche creativo deluso, bensì di un'intera generazione, buttata via, cancellata dalle mappe dell'esistenza, costretta a vivere con la continua sensazione di non rappresentare niente di interessante, di utile. E' la legge del libero mercato, a cui nessuno sfugge, non vince chi vende un buon prodotto, vince chi vende, è la metafora della guerra, non ci sono regole. Ecco, è proprio questo, siamo in guerra, ormai da trent'anni, dove nessuno vince, ma dove quella generazione perde senz'altro, una guerra che ha ormai logorato chiunque, la più lunga che l'uomo ricordi e di cui non s'intravede la fine. E adesso qualcuno s'indigna, per la fogna in cui siamo caduti, e lo fa in modo civile, educato, cercando attraverso il politicismo, perché la politica non esiste più, di farsi restituire una vita decorosa, un futuro, dimenticando che chi ci governa non ha niente a che fare con la qualità. Ma chissà se è davvero ingenuo o non si tratta di chi non è stato invitato alla festa o che si attiva soltanto quando è il suo orticello ad essere in pericolo. Tante leggi sono cambiate, tanti proverbi hanno perso valore e significato in questi anni di guerra, ma ce n'è una che non cambia mai, fortunatamente o purtroppo, quella che, in democrazia, ognuno ha quello che si merita. Riflettete onestamente, avete da perdere, non siete ancora pronti per la rivoluzione, per la quale, come in tutte le cose, ci vuole passione, non certo amore, ma sicuramente si deve essere forti di una necessità ineludibile. Se non è così, il pane e circo dell'imperatore di turno saranno sempre sufficienti a mantenere il nostro paese sull'orlo del nostro burrone.

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